Saturday 13 September 2014

Poesia di Olga Campofreda

Il Colloquio. Monodia a due voci.

Ma la prego si sieda, si sieda pure
mia cara signorina minorenne.
Minorenne ancora.
Minorenne quanto?
Di venticinque anni.
Bene, molto giovane
-le dici-
mentre pensi
-minorenne-
e lei ti osserva con quegli occhi spaventati
che chissà quante volte s’è guardata allo specchio
per sentirsi sicura
prima di incontrarti,
direttore.
E percorri l’accurata scelta dei suoi abiti
Sobri,
composti,
camicia azzurra
aperta solo sull’ultimo bottone
che lascia intravedere
a stento
le sottili ossa del respiro
-clavicole, s’intende-
che viaggiano veloci luccicando insieme
a quella catenina d’oro sottile
-sarà un regalo del battesimo
o della comunione-
pensi,
mentre lei si presenta
in tre aggettivi
proprio come
le hai chiesto di fare.
E quando si spiega “precisa”
in realtà non l’ascolti
chè t’immagini invece quel giorno
in cui lei ha deciso di andar via da casa
a studiare
lontano
alle feste, pensi,
alle scopate,
alle notti passate su un esame,
riempite di caffè e aspettative vane.
Le guardi le clavicole ansimare
d’ansia e di passione
e ti passi una mano alla cravatta,
cacci via i pensieri,
mentre lei si descrive “socievole”.
Le tue mani,
sudate,
disegnano il contorno dei suoi anni passati, sul foglio:
cameriera,
baby sitter,
hostess,
qualche volta modella,
il foglio racconta,
e mentre si dice “intraprendente”
tu leggi dei suoi anni in Inghilterra,
conoscenza della lingua: Ottima.
Sgualdrina, sgualdrina,
e ritorni al suo collo,
un collo magro e bianco
che pure sui libri
ha imparato a piegarsi:
Filosofia, 110 e lode
tesi in dialettica di Hegel.
E dottorato: pure.
Un’inguaribile passione
per i poeti russi,
e gli scrittori: pure
tutti quanti li ha letti,
ti dice,
mentre si descrive “colta”.
 Quante qualifiche
per così pochi anni.
Sorridi.
Tu, che dietro quella scrivania
hai un calendario
dell’isola di Pasqua,
che non hai cornici per diplomi,
per famiglie: neppure.
Questo lavoro- dici-
esige personale di rigore
c’è da avere qui a che fare
con la gente,
con tutti questi studi
non sarà che poi si sente superiore?
Nossignore!- lei dice
e un po’ trema la voce
-E allora dica, dica pure
a me,
che sono il direttore,
qualcosa che giustifichi i suoi anni
passati tutti fitti
in questa lingua astratta
di tesi e antitesi
e spirito del mondo,
in che modo sarà utile
mi chiedo
nel promuovere
i modelli d’avanguardia
che la mia ditta lancia
sul mercato del climatizzatore?
Mi serviranno credo
a sopportare meglio
l’etica del servo e del padrone.
La fierezza scorgi
direttore
nel suo sguardo
e il disincanto: pure.
Resti in prova qualche mese
signorina,
concediamo un’ eccezione al suo bel viso:
troppi studi la distraggono,
mi creda,
chè il lavoro non ha nulla a che vedere
con i massimi sistemi che mi dice.
La signorina allora parla
con la voce spezzata,
un respiro profondo e poi dice:
contratto.
Questa è l’ultima parola che dice,
la signorina piange
quando la mandi via umiliata:
è al denaro che lei pensa, al denaro!
Soltanto vergognarsi deve,
a venticinque anni,
e adesso vada fuori!
Questi giovani d’oggi
così arroganti,
questi giovani d’oggi che hanno studiato tanto
e tu –direttore- con le mani nella terra di tuo padre
e adesso a capo della ditta,
faglielo capire che cos’è il lavoro,
batti le schiene della loro ambizione,
umiliali pure,
che sono giovani,
che devono imparare a tacere,
che devono imparare ad obbedire.
Rendila arida e atroce,
questa giovinezza,
direttore,
adesso che non ti appartiene.
Presentala così:
qualcosa da cui sei scampato,
qualcosa di
troppo simile al male,
da cui sei uscito fuori vivo.
La libertà non c’entra mai
davvero.

(da Articolo 1, una Repubblica AFfondata sul Lavoro)









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